Monumento ai Caduti

Omaggio del figlio al padre artista
Per i caduti di tutte le guerre, ancestralmente legati alla vita
monumento_ai_caduti_FiumefreddoAll’aeroporto di Linate, da lontano, scorgo mio padre con la sua borsa a tracolla avvicinarsi al nastro trasportatore per recuperare la valigia dopo il viaggio Catania Milano. Ci abbracciamo. Ha il fiocchetto giallo – mi dice – la valigia. E l’idea, chiedo? È qui – risponde, indicando come sempre con un dito la sua testa; mi fa capire che c’è e non è neppure tanto cattiva. Nella borsa ci sono le stecche, da lui stesso costruite, grandi e personalizzate con del fil di ferro contorto.
L’incarico avuto dal sindaco di Fiumefreddo per la realizzazione di un bronzo da dedicare a tutti i caduti delle guerre gli era piaciuta subito. La guerra, lui, l’aveva vissuta in prima linea subendo a vent’anni cinque anni di prigionia in giro per l’Europa ed avendo salvato la pelle, sapeva cosa significasse condizionare la propria esistenza ai vincoli precisi della morte, fisica o spirituale che fosse.
Era stato deciso di realizzare la scultura direttamente in fonderia e a Milano, per ottimizzare così tempi e costi oltre che energie.
L’idea dunque c’è. Si tratta di coagularla, racchiuderla nella creta per trasformarla successivamente in materia più resistente, coerentemente col principio della longevità, quasi a sfida e contrappasso, in antitesi di una precaria, inaccettabile morte, soprattutto a vent’anni.
Lo accompagno, un mattino di giugno, quando è già caldo a Milano, in fonderia. Il trespolo è pronto e pure la creta in due enormi contenitori con il supporto di quella che sarebbe stata l’opera; c’è anche “il formatore”, l’uomo che l’avrebbe aiutato a stenderla.
Il primo giorno è dedicato a imbastire l’ossatura dell’opera, l’armatura in ferro e in fil di ferro con le tante “stellette” che avrebbero imbrigliato un metro e ottanta di peso statuario.
Dal perno centrale, infatti, si dipartono queste “farfalle” che servono per incapsulare la creta. Vicino, lo sguardo quasi assenziente di una scultura in gesso di Padre Pio.
Intorno a papà, in fonderia, si muove un mondo d’arte. Lui, captato come un bambino, dai giochi, va in giro a far foto scordandosi pure che la sua opera è ancora tutta da realizzare.
Gli operai lavorano in maniera parcellizzata: alcuni sono adibiti alla cera, altri alla fusione interrando o sterrando blocchi di creta a copertura di sculture da fondere, altri dediti all’esecuzione di gessi o al cesello del bronzo; il Mariani, proprietario, patina.
In questa atmosfera le sculture, artisticamente di vario genere e il lavoro paiono essere a mio padre intensamente emotivanti. A sera, dopo aver scattato molte foto, credo abbia realizzato poco della sua.
L’indomani l’accompagno in macchina, come avevo fatto il giorno precedente. Si deve attraversare tutta la città, da sud a nord, in direzione del cimitero monumentale verso via Stilicone, là dov’è villa Simonetta che, nel quindicesimo secolo, fu palazzo nobiliare per principi. Lo lascio.
A sera, lo vedo scendere dal taxi, a S. Donato, È stanco, fiero, soddisfatto. Mi dice: è terminata. Credo scherzi e chiedo: terminata cosa? L’opera – mi risponde. Glielo faccio ripetere più volte e tuttavia, pur conoscendo la sua velocità nel modellare, resto incredulo. So che ha male al braccio destro e gli chiedo di questo. Mi risponde che aveva usato prevalentemente il sinistro, come se fosse cosa ovvia. Il giorno dopo decido di “bigiare” dal mio lavoro e non solo lo accompagno in fonderia, ma rimango tutto il giorno con lui.
In realtà quella sua idea platonica si era concretizzata e la scultura materializzata ormai, su di un trespolo, esplodeva in tre emaciate figure, due uomini ed una donna con in grembo due bimbi di cui uno sarebbe ancora dovuto nascere.
“Una resistenza non vinta, – mi dice con orgoglio -, ma che, alla luce della vita che nascerà, proietta oltre la soglia del male e del tempo, l’uomo”.
Vedo, per un attimo, la piazza di Fiumefreddo in cui sarebbe stata collocata l’opera, un bronzo simbolo e l’immortalità dell’arte proiettata verso l’uomo del terzo millennio.
Quell’idea che qualche giorno prima non riuscivo a scorgere, si era concretizzata. E così quanto prima la creta duttile e fragile, si sarebbe trasformata in gesso, cera persa, bronzo dorato al sole di Sicilia.
In realtà l’opera del giorno prima è abbondantemente sbozzata. Ci vuole ancora tutto il giorno, quel giorno, per finirla. Va su e giù dal trespolo, in continuazione, tanto che “l’aiuto” si mette dietro a mò di catena con le mani a protezione, su di una predella.
Stecca con forza, procedendo dall’alto verso il basso, sulle cinque figure che, lentamente ma sicuramente, si animano di maggior pathos.
Intorno, intanto, l’altra attività di fonderia, procede. Lo scultore Pomodoro ritocca la sezione sferica d’una sua opera in cera, con una piccola stecca. La cera rossa, stratificata sulla gialla, si stacca dal dorato colore del bronzo. Su trespoli, danzano esili figure femminili; stesa per terra, sezionata a metà, una pesante statua sotto la punzonatura attenta e martellante dell’operaio che, con tappi alle orecchie per non assordare, la leviga e salda pure.
Enormi tre colombe di Bodini, intanto, allargano le ali pronte a volare verso S. Donato, là dove, nel giorno dell’anniversario della morte di Mattei, 27 ottobre, sarebbero state collocate davanti all’etero palazzo verde di vetro dell’Agip. Bronzo scuro a dare il peso del cupo tempo del nord.
Pure Messina, il linguaglossese scultore aveva, in quel tempio della catarsi dell’arte, eseguito il cavallo di bronzo della Rai come descritto in “Poveri giorni”. Parte della sua produzione scultorea è ancora lì, in quel museo a cielo aperto.
L’espressione voluta da mio padre è realtà. Seduto a distanza di qualche metro, mentre il grande trespolo su cui è poggiata l’opera si fa girare, osserva la sua creatura. Fra le ultime steccate, c’è la firma in calce, ai piedi dell’uomo.
A sera gli operai lentamente escono dalla fonderia. Con la creta rimasta, stanco, crea ancora un bozzetto che lascia al proprietario. Il braccio è davvero dolente quando, a Linate, il Super 80 dell’Alitalia decolla verso sud scomparendo sulla mia testa.
Ripenso per un attimo all’opera realizzata, alle tre emaciate figure con gli occhi della morte, annichilite dall’opprimente peso della guerra ma strette dal bisogno di un futuro di pace che depongono sul bimbo, avvinghiato alle braccia e al seno della madre stanca: nascerà ancora da essa una vita a proiettare nel tempo i suoi sogni.
Fiumefreddo, in Sicilia, è ancor di più ancestralmente legata al terzo millennio.

Giovanni Incorpora